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anche la diffamazione può essere stalking

Il Sole 24 Ore – Anche la diffamazione può essere stalking

22.09.2010

di Giovanni Negri

Non solo le minacce. Anche la diffamazione presso il datore di lavoro può essere considerata stalking. E i giudici devono prestare molta attenzione nell’esame dei comportamenti del presunto molestatore per non essere poi accusati di averli sottovalutati nel caso sfocino in conseguenze gravi. L’avvertimento arriva dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 34105 della Quinta sezione penale, depositata ieri, ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame di Napoli che aveva dato ragione a un uomo accusato di stalking e sottoposto dal Gip alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

A giudizio del tribunale infatti gli indizi raccolti e ciò un paio di sms inviati alla presunta vittima, seguiti da minacce di morte e da un fatto di diffamazione non presentavano da soli il carattere della persecutorietà  e dell’idoneità  a creare uno stato di ansia tale da impedire alla persona offesa la propria vita lavorativa e familiare.

La Cassazione mette in luce come la condotta molesta, sanzionata dall’articolo 612 bis a titolo di stalking, deve essere tale da provocare un grave stato di ansia oppure o in aggiunta un fondato timore per l’incolumità  personale. Si tratta, sottolinea la sentenza, «di condotte alternative capaci tutte e ciascuna di integrare il reato in discussione». Il reato è infatti previsto quando il comportamento minaccioso posto in essere con condotte ripetute nel tempo è tale da indurre la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita.

Il tribunale aveva escluso in particolare il carattere assillante e persecutorio degli interventi dell’indagato. Una conclusione che però alla Cassazione è apparsa incongrua, soprattutto perché è stato lo stesso tribunale a dare atto della denuncia della persona offesa, che ha riferito di molestie durate 3 mesi, di squilli telefonici anche nel corso della notte e del continuo ricevimento di sms. Sempre il tribunale aveva poi attestato che la persona offesa ha anche raccontato di ripetute aggressioni verbali avvenute anche alla presenza di testimoni e delle iniziative gravemente diffamatorie assunte presso i propri datori di lavoro per indurli a licenziarla. Tutto con l’obiettivo di convincere la donna a riprendere una relazione che si era interrotta poche settimane prima.

I giudici di Napoli, però, nella lettura della Cassazione, non avevano poi indagato e soprattutto motivato a sufficienza sulle conseguenze per la vittima di questi comportamenti. Magari anche solo per circoscrivere l’attendibilità  della donna. Non basta cioè considerare in maniera troppo assertiva che le condotte contestate sono state contenute nel numero e nella qualità, non invasive e assillanti nella vita altrui. Bisognava cioè spiegare con ampiezza di motivazioni l’inidoneità  delle condotte a provocare un grave stato di ansia o anche solo di paura oppure un fondato timore per la propria incolumità .


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